Formazione

Storie. Jean Sélim raccontato dalla moglie. Una vita data all’Onu e alla pace

Era partito ventiduenne per la Somalia e ha trovato la morte in Iraq nell’agosto del 2003 dilaniato dall’attentato contro la sede Onu (di Monica Piccini).

di Redazione

Nell?elenco dei caduti nell?attentato alla sede Onu di Bagdad, il 19 agosto 2003, Jean-Sélim Kanaan, 33 anni, compariva come il neopapà del gruppo. Sua moglie Laura (italiana di Bolzano) gli aveva dato un figlio, tre settimane prima, e lui stava per tornare a casa. Solo qualche mese prima, aveva dato alle stampe La mia guerra all?indifferenza, tradotto ora dal francese (editore Marco Tropea). Nel libro racconta l?esperienza di un vero cittadino del mondo il cui entusiasmo lo porta ai quattro angoli del globo spinto della necessità di ridare dignità a chi l?ha persa. A 22 anni bussa alle porte di una ong francese, che dopo molti tentennamenti per via della sua faccia da bambino, lo spedisce a Mogadiscio in Somalia. In Bosnia, invece, si vede costretto ad abbreviare il suo secondo nome in S. per superare i pericolosi check-point serbi. Un?identità ?camaleonte? la sua, che da risorsa preziosa si tramuta ben presto nella sensazione di non esser di casa in nessun posto. Né tra i Rambo delle missioni umanitarie né tra i funzionari, in giacca e cravatta, del Palazzo di Vetro dove, di ritorno da Sarajevo, Kanaan viene assunto. La guerra in casa Finalmente il momento di posare le valigie, «finché», come dice sua moglie Laura Dolci a Vita, «la guerra è entrata in casa nostra. Una cosa è vedere i Boeing esplodere sulle Torri Gemelle alla tv e un?altra sentire l?odore della cenere nel Financial district, dove ci trovavamo noi, a breve distanza. è quell?evento che spinge Jean-Sélim ha ?riaprire i cassetti? della sua memoria, e trovare così un modo per accogliere il dolore e la rabbia inespressa di tanti traumi subiti e visti subire». «Precisamente», ci racconta Laura, «Sélim ci dice di come sia difficile assistere a violenze inenarrabili e poi dover rispondere alla domanda degli amici: ?Allora come va in Bosnia??». «La nostra è una professione fatta da giovani», sottolinea Laura. «Capita spesso che sia un 25enne a coordinare uno staff di venti persone compresi i collaboranti locali. Quello che mio marito ha voluto dire a proposito delle ong, e che condivido, è che in molti casi manca, in una professione a tutti gli effetti come questa, una preparazione specifica che tenga conto dell?aspetto psicologico, etico ma anche manageriale. Non si può far del bene agli altri se non si è profondamente a proprio agio. Per questo mio marito a un certo punto è tornato a studiare ad Harvard». Laura parla di Jean-Sélim in maniera quasi distaccata. Anche lei lavora alle Nazioni Unite e quando le chiedo di come vive adesso, risponde: «Cerco di dare una vita il più serena possibile a mio figlio. Cerco di vivere nel modo e secondo gli ideali che abbiamo scelto insieme a mio marito, ma non è facile accettare la sua assenza». Partita da Bolzano a 19 anni per studiare scienze politiche all?università di Firenze, Laura si è laureata con una tesi sulla decolonizzazione in India. Dopo aver partecipato a un programma dell?Onu sulla condizione femminile nel subcontinente indiano, ha lavorato a Bruxelles nel Parlamento europeo. Magia in Bosnia «Con mio marito ci siamo conosciuti in Bosnia-Erzegovina, precisamente a Velika Kladusa, nell?enclave musulmana del Nord-Ovest del Paese. Io partecipavo alla ricostruzione del dopoguerra, mentre Jean-Sélim, dopo aver assistito alla guerra dall?inferno di Sarajevo, era tornato sul posto per conto dell?Onu a lavorare in un?agenzia per la ricostruzione e lo sviluppo sostenibile. Il nostro incontro ha avuto come linea di demarcazione la guerra. Le missioni umanitarie sono un terreno fertile per le unioni, se ne formano migliaia e a migliaia si dissolvono. In alcuni casi non ci sono svaghi né uscite serali né elettricità: sei nudo, uno davanti all?altro, non ci sono bugie che tengono in situazioni come quelle che abbiamo vissuto all?inizio della nostra storia. Nonostante ciò, è scattata la magia». Un mese e mezzo prima che l?autobomba venisse scagliata contro il quartier generale Onu, Jean-Sélim scriveva: «Tutta l?équipe si sente inquieta, nessuno sa quello che succederà. Ho davvero voglia di tornare a casa e di vedere finalmente il musetto del piccolo Mattia-Sélim. Abbiamo il dovere di tendere la mano gratuitamente, senza alcun altro interesse che non sia quello di promuovere la pace. La pace accarezza la vita, la incoraggia a tornare, dolcemente, giorno dopo giorno. La pace consola, allevia le sofferenze, offre il perdono. Mentre la guerra annichila, seppellisce, sterilizza e distrugge».

Monica Piccini


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA